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Cenni storici

TAVENNA, TERRA DI FRENTANI

L'attuale regione tavennese era occupata, all'inizio delle guerre sannitiche (anno 341 a.C.), da popolazioni italiche abbastanza omogenee per caratteri linguistico-culturali, i frentani, popolazione di origine illirica che ha subito un processo di fusione con una autoctona, residente già dal Neolitico. Teneva il proprio dominio nella regione relativa all'alto Molise.

Il principale centro abitato fu Larinum, divenuto in seguito colonia romana. Furono spesso alleati con i Sanniti . Altri centri importanti dei Frentani furono: Epineion (Ortona) il cui significato in osco è "arsenale organizzato sul mare", Lanciano (colonia romana Anxanum), Vasto (Histonium ).

Popolo guerriero si difese sino allo stremo dal processo di romanizzazione, subendo successivamente la conquista dei Romani. Vivevano di agricoltura, pesca ed allevamento, nonchè producevano prodotti agro-alimentari.


CASALE DI TABENNA

Dal "Catalogus Baronum", che fu redatto dai re normanni negli anni che vanno dal 1150 al 1168 per stabilire e quantificare il numero di uomini e di cavalieri che ogni feudatario, allora esistente, doveva fornire all’esercito per le crociate e per difendere il regno da eventuali e sempre possibili invasioni arabe, può rilevarsi che:
"Hugone de Rocca ed il fratello Robbertus erano feudatari del filio Hugone di Ripam Albam (Ripa Alta), Monte Tylie (Montelateglia), Palatam e Tavennas". Tavenna, che è indicato nella forma plurale, si deve ritenere che fosse composto da tanti casali sparsi sul territorio.

Sulle falde di Montelateglia (anticamente, in latino, "Mons Ytiliae"), rotonda collina situata nei pressi di Tavenna, nella parte a nord del paese, vi era una Cappella denominata " Santa Maria in Basilica". Il sito è stato certamente abitato prima di Tavenna ed è luogo carico di storia. Sul posto potrebbe essere collocato un insediamento di certo rilievo già in epoca osco-sannita. (Paterno E. A.)

Durante il papato di Leone III, a Montelateglia vi fondarono un monastero i benedettini, i quali vi arrivarono nel periodo 795-816 provenienti, forse, da Montecassino. I monaci edificarono un’abbazia e tanti altri mini conventi, che erano abitati dai monaci.

Successivamente, nel XI secolo, i benedettini vi ebbero a costruire, forse perchè il precedente era stato distrutto da un terremoto, un nuovo monastero, il quale anche nel corso del secolo successivo costituì un importante punto di riferimento ed un notevole faro di aggregazione religiosa e civile per tutta la zona. E siamo all’epoca in cui sulla vicina "Tabenna" domina Brancardus.

L'importanza di Montelateglia, nei secoli successivi, ci è ulteriormente dimostrata dal fatto che a breve distanza di tempo riuscì a dare due padri generali all'Ordine dei Celestini (dei quali ivi era un convento): Padre Davide da Montelateglia, eletto nel 1344, e Padre Pietro da Montelateglia, eletto nel 1356.


Comunque, l’insediamento di Montelateglia nei secoli seguenti perse, anche se con gradualità, il fasto antico e deperì fino ad essere ridotto a poco più che un semplice villaggio.
Nel secolo XV è quasi completamente disabitato, a causa, forse, dei terremoti e, soprattutto, della peste molto frequente in quel periodo.


Don Francesco Zaccardi, arciprete di Tavenna dal 1763 al 1791, scrive che "il vicino casale di Montelateglia fu distrutto dal terremoto del 1688, quando contava ancora 10 fuochi".

Tavenna è chiamata « Casale Taberna » nella Numerazione del Regno deI 1608, e " Casale di Tabenna" nei Registri parrocchiali del 1656. Nell’idioma sIavo il suo nome è « Tàvela ».

Tavenna pare che abbia avuto origine dagli slavi, immigrati dai Comuni vicini nel periodo aragonese.

Il Galanti e il Del Re asseriscono che, ai loro tempi, in Tavenna si parlasse lidioma slavo dalla totalità degli abitanti, come slave erano le abitudini e le costumanze. Col tempo il culto delle memorie e delle tradizioni si andò affievolendo.

Il Vegezzi - Ruscalla osserva, infatti, che nel primo censimento del nuovo Regno d’Italia eseguito nel 1861, in Tavenna non vi erano che soli sessanta anziani i quali parlavano esclusivamente slavo e non conoscevano affatto l’italiano; e nondimeno non si dichiararono di lingua slava "temendo di essere per tal fatto considerati come stranieri, mentre essi, malgrado la diversa favella, si considerano pretti e schietti italiani ».

Negli anni successivi alla proclamazione del Regno d'Italia, inizia il fenomeno dell'emigrazione, soprattutto verso l'Argentina, il Brasile e gli Stati Uniti.

Questo ha diffuso il nome di Tavenna dappertutto giacché gli emigrati ed i loro discendenti, orgogliosi della loro origine tavennese, continuano con le tradizioni della bellissima Tavenna.

Dal libro "TERMOLI E LA DIOCESI"
di Biagio D’Agostino Vescovo
(edito nel 1977, pp. 257-259)

TAVENNA

Si estende su di un colle che raggiunge 550 m. di altezza. Il paese ha avuto origine sicuramente nel secolo XII. Nella pubblicazione — già citata — riportante le decime dei secoli XIII e XIV compare nella diocesi di Termoli già il nome di "Tavenne ".

Le denominazioni del Comune che compaiono in epoche successive come quello di "Casale Taberna" nella Numerazione del Regno del 1608 e l’altra di "Taberna", sono da ritenersi variazioni dovute alla fluidità della lingua.

Nella lingua slava il nome del paese è "Tavèla". La immigrazione della gente schiavona si ebbe verso il 1560.

La Chiesa parrocchiale dedicata a S. Maria di Costantinopoli iniziata nel 1770 fu completata nel 1773 come risulta dalla seguente iscrizione: "D. O. M. — Illirici gens cara Deo me extollere... — Deiperae Sacramenti Regiam (Regis ero) — MDCXXXIII" — Evidentemente la iscrizione non è completa: parte di essa è andata perduta.

Nel secolo XVII il convento di S. Pietro di Montelateglia fu dato come commenda. Al tempo dell’abolizione delle commende i suoi beni furono divisi tra il Comune e il Capitolo Cattedrale di Capaccio, la cui sede Vescovile nel 1852 venne da Pio IX trasferita nell’attuale Sede di Vallo della Lucania.

Poichè sono stato Vescovo di questa Diocesi che mi rimane sempre cara nel ricordo più vivo e paterno, sento il dovere di attestare che le rendite della suddetta assegnazione furono parzialmente percepite dal Capitolo Cattedrale Vallese sin quasi allo scoppio della seconda guerra mondiale. Data la difficoltà che i coloni presentavano nel soddisfare i loro obblighi, il Capitolo di Vallo della Lucania non ritenne più opportuno insistere e generosamente rinunziò ad ogni diritto di canoni.

Il villaggio di Montelateglia, e bene notare, ebbe a dare due Padri Generali dell’Ordine Celestino: P. Davide da Montelateglia, eletto nel 1344 e il P. Pietro da Montelateglia, eletto nel 1356.

Oltre la chiesa parrocchiale il Comune possiede l’antichissima Chiesa dell’Incoronata, forse appartenente alla Famiglia Drusco.

In essa si ammirava il coro, pregevole per lavori d’intaglio e per i quadri sormontanti i 17 stalli corali. Il coro purtroppo è andato perduto, marcito dall’umidità e dal tarlo.

Sono state salvate le tele che ornavano gli specchi degli stalli e sono conservate dal Parroco. Sarebbe quanto mai conveniente interessarsi per un restauro di esse e per una loro sicura e dignitosa sistemazione.

Nella chiesa dell’Incoronata, oggi rimessa a nuovo, si ammirano le statue in legno di S. Vito e di S. Luca, nonchè le sontuose cornici barocche di cui una adorna la nicchia di S. Vito e l’altra sormonta l’altare maggiore.

Nel territorio del Comune vi era anche il Casale di Castelluccio o Castelbruzio, un tempo abitato.

La Comunità parrocchiale è costituita da circa 530 famiglie con oltre 1300 abitanti.

In Tavenna ebbe i natali l’Abate Pietrabbondio Drusco il quale nacque il 6 febbraio 1749 da Nicola ed Elisabetta Musacchio. Egli visse in gran parte a Napoli. Lasciò un manoscritto circa "L’Anarchia popolare di Napoli" in cui ebbe a dare una importante cronaca de fatti del 1799 dei quali nella città fu testimone oculare.

Il manoscritto venne poi pubblicato a Napoli il 1884 e ancora oggi conserva il suo pregio per l’autenticità delle notizie riguardanti il turbolento periodo che Napoli ebbe ad attraversare nell’anno della rivoluzione.

Dalle "MEMORIE" di Mons. Tomaso GIANNELLI,
Vescovo di Termoli dal 1753 al 1768.

CAPITOLO X

Del Casale di Tavenna

Da Montecilfone proseguendosi il cammino verso la Regione occidentale nella distanza di quasi miglia quattro (via più tosto disastrosa, che facile e comoda) s’incontra il Casale detto Tavenna. Si dice Casale, per essere nel governo temporale dipendente da Palata, che per la giurisdizione spirituale appartiene alla Diocesi di Guardialfiera, e per formare con quella un solo ed indiviso Territorio. Le Università però sonò divise, e ciascheduna elegge li propri Uffiziali, che la governano, e ciascheduna paga al regio Fisco secondo la propria numerazione de fuochi.

Era appartenuto il Territorio alli Frentani, spettò poi al Contado termolese, ed ora è delli primi Luoghi, che s’incontrano passata la linea, che divide la Provincia di Capitanata dal Contado di Molise. E siccome a queste due Provincie presiede un solo Giustiziere, che ora si chiama Preside; cosi della divisione si tiene unicamente ragione per gli pagamenti delli pesi fiscali, per gli quali queste Università sono tenute riconoscere per legittimo Ricevitore l’uffiziale del Fisco detto Precettore, che risiede in Campobasso luogo della Diocesi di Boiano.

È molto verisimile, che nel tempo assai da noi rimoto non sia stato privo di Abitatori; che però mancandovi nel XVI Secolo, vennero verso la metà del Secolo medesimo a stabilirvisi gli lllirici detti anche Schiavoni. Fermarono la sede principale nella Palata, e per lo comodo di coltivare il Terreno alcuni si stabilirono nel luogo detto Santa Giusta verso l’Ostro, la quale appartiene alla detta Diocesi di Guardialfiera che presto abbandonarono, ed altri verso Settentrione in questo Sito.

Per memoria ditale stabilimento sopra la porta di quella Chiesa di Palata, senz’avervi incisa l’era, posero la seguente iscrizione: Hoc primo Dalmaticae Gentes incoluere Castrum. ac a fundamentis erexere Templum. In Palata, che si considera per lo luogo principale, ed è più di questo frequente di Popolo, numerandosi ivi Anime 1700, e qui 1100 in circa, non si è conservato il parlare colla lingua illirica, il quale qui si è mantenuto e si mantiene.

Il sito è il più ameno e di acre più salubre fra li Luoghi di questa Diocesi. Abitano li Cittadini nella vetta di rilevato Colle, da cui si vede verso greco, e levante l’adriatico Mare, e verso le altre Regioni si gode il vago prospetto di Colli e Monti.

Intorno il Colle scorrono acque cristalline, chiare e leggiere, e niente manca delle cose più necessarie al vitto, chil Terreno stesso produce. Per tali circostanze l’ho eletto per dimorarvi nel fine dell’està e principio dell’Autunno: e l’elezione ha conferito molto alla gracile mia complessione, a cui non ha poco pregiudicato e va pregiudicando l’acre umido e salino di Termoli.

Oltre il vantaggio, che si ritrae dalla qualità dell’acre, oltre il piacere, che s’incontra per l’amenità del sito, ed oltre il comodo, che si ha quanto bisogni per nodrirsi frugalmente; manca l’opportunità della vita sociale e civile, mentre oltre sei Sacerdoti, e tre Famiglie civili, non v’è con chi conversare e trattare.

Nella descrizione e stima, che fè del Feudo nell’anno 1648 il Taulario del S.R.C. Natale Longo, si rappresenta, che le case erano più di paglia, che di pietra e che vi abitava tanta poca Gente, che formava il numero di quindici Fuochi. Ora per lo Fisco è numerato in Fuochi 50, ma nello stato delle Anime oltrepassa li 200; come pure le Anime oltrepassano le 1100.

Le case sono fabbricate con calce e pietre, ed alcune poche della Gente più povera sono fabbricate colla creta. Il picciolo sito antico era ristretto fra due porte da mezzo giorno a Settentrione, che oggi si veggono; ma, nell’essersi moltiplicato il Popolo, dall’una e dall’altra parte si sono fabricate le case.

Li Cittadini non menano vita misera e meschina, perché sono applicati molto alla fatica ed alla coltura del Terreno, per cui gli Uomini sono aiutati molto dalle Donne; le quali per tale riflesso appariscono rustiche nell’aspetto, e sono robuste: nè si è introdotto lusso nel vestire.

Per la coltura suddetta le specie di vittovaglie sopravanzano al bisogno, e sopravanza ancora il vino, che si raccoglie dalle vigne, le quali sono molte e fruttifere. Sono parimenti applicati alla custodia degli animali di ogni specie, ed hanno il Terreno così disposto, che vi possono pascere in tutte le Stagioni. Nell’està, siccome l’erba eccede il bisogno, così si ammette a pascerla gli animali, che vengono dalla Puglia.

In tal modo gli riesce evitare la mendicità; ma non si possono rendere ricchi e facoltosi, perchè nè nel Territorio proprio, nè nelli Luoghi contermini possono acquistare terreni, che spettano alli rispettivi Baroni.

Vennero gli Schiavoni a fissare il loro domicilio nel Territorio alieno, ed allora non ebbero altro, se non se il diritto di coltivarlo coll’obbligo di riconoscere il Padrone: nè collo scorrere degli anni si è punto mutata la loro condizione. Furono, è vero, accolti questi Schiavoni con pesi meno gravi di quelli, a cui si obbligarono coloro, che si fermarono in Acquaviva, Feudo contermino, e spettante alla Religione de Cavalieri Gerosolimitani, ed in San Giacomo feudo della Mensa; ma niente gli fu dato in proprietà da possederlo con titolo o privato o dell’Università.

Qui veramente hanno liberi da ogni peso gli Orti, ed ogni albero fruttifèro, eccettuati gli olivi; ma per lo grano, ogni specie di vittovaghie, lino, canapa, mosto ed olio pagano la decima parte di quello, che raccogliono. Hanno però libero il pascolo dell’erba e ghiande, e si dee dare solo al Barone del Feudo da ogni Famiglia un prosciutto, qualora per uso proprio ammazzi un porco.

Quantunque alli primi Coloni niente fu assegnato da possederlo quale loro demanio in nome dell’Università da stabilirsi; sul fine però del passato Secolo pretesero li Cittadini essere demanio dell’Università il Territorio intermedio fra questo Luogo e Montelateglia detto, secondo le diverse Contrade, Pedicone, Frassineto, Carpineto. E perché la lite si doveva trattare con persona Ecclesiastica, cioè con l’Abbate commendatario di S. Maria in Basilica, a cui spetta tutto il Territorio di Montelateghia; il giudizio fu introdotto nella Curia Vescovile, dalla quale all’Università fu conceduta la manutenzione. Avendo appellato l’Abbate, ch’era allora della Famiglia Francischelli, con tre sentenze conformi della Rota Romana fu rivocato il decreto della Curia Vescovile, e fu alla Badia di S. Maria in Basilica attribuito il Territorio suddetto.

L’esecuzione della cosa giudicata fu sospesa per essere stata impedita ha concessione del Regio Placito, il quale fu conceduto, ma colla condizione, che la cosa giudicata non si potesse eseguire, se non avesse prima, con cognizione di causa, ricosciuta il S.R.C. se doveva concedere il braccio, o sia l’aiuto della famiglia armata per la reale esecuzione. Scorsero molti anni per trattare tale nuovo piato nel Tribunale suddetto, dal quale, dopo l’accesso di un Ministro che fu il Consigliere Orazio Rocca, e nel tempo, ch’era commendatario della Badia il Cardinale Carafa, di chiara memoria, fu dichiarato, che, per essere la cosa giudicata in Roma valida e giusta, si dovesse eseguire con l’aiuto del braccio secolare. E così nell’anno 1752 il Cardinale Carafa medesimo ne conseguì il possesso che durò tre soli anni.

Con aver dedotta l’Università falsa risulta fiscale di adoa e rilevi non pagati al Fisco per lo Feudo di Pedicone, si oppose sequestro al possesso, per cui, in vece di farsi deposito delli frutti, proccurò l’Università divenirne padrona.

La pretesa risulta fiscale non ebbe effetto, e dal S.R.C. fu ordinato, che l’Abbate commendatario fosse rientegrato nel possesso, e gli fossero restituiti li frutti ingiustamente occupati. Sono seguiti rumori grandi sopra la liquidazione de frutti, e sopra la reintegrazione del possesso; talchè nell’anno 1766, cioè in questo che scrivo, è stato uopo, all’Abbate commendatario, ch’è D. Scipione Borghese de Prencipi di Sulmona, far comparire trenta Soldati della Cavalleria del nostro Monarca, per impedire le violenze, colle quali si proccurava rendere inutile il ricuperato possesso.

In questo stato li particolari Cittadini de più benestanti per annui docati dugento han preso in fitto il Territorio suddetto, ed hanno promessi pagare altri annui docati cinquanta per gli frutti da meglio liquidarsi. Da costoro, per la quiete de Cittadini, che non si vogliono persuadere, di non essere loro tale Territorio, si è ceduto il fitto all’Università, la quale, con farsi carico del pagamento, si contenta, che li Cittadini godano quei diritti, che prima vi godevano.

Si prevedono nuovi rumori. L’utile Padrone di Montenero, ch’è il Signor D. Cesare d’Avalos Duca di Celenza, esercita giurisdizione nel Territorio di Montelateghia, dove li Cittadini del Luogo suddetto sono nel possesso di pascere li loro animali, far legna di alberi non fruttiferi, e di servirsi delle acque.

Nel tempo dell’accennata lite nè li Cittadini di Montenero, nè l’utile Padrone hanno esercitato li diritti suddetti nel Territorio controverso. Essendo stato però adesso deciso, ché tale Territorio non sia separato, e formi un solo corpo con Montelateghia; e l’utile Padrone e li Cittadini di Montenero si vorranno avvalere della loro ragione.

Questo non piacerà certamente alli Tavennesi, li quali, se niente potranno conseguire in giudizio, saranno nell’impegno di usare la violenza con popolari sedizioni. Se a tale segno si ridurranno le cose sarà inevitabile la rovina della Terra, perché non tollererà il nostro Monarca, che sia impedita l’esecuzione delle cose giudicate colle popolari sedizioni. Se nelle Comunità del Regno si aprisse l’adito a tali irregolari procedure, si renderebbe inutile l’autorità de Tribunali,, e si avrebbe in non cale la Maestà del Principe, a cui ciascheduno Popolo si farebbe lecito opporre e contradire.

Di questi espedienti presi dalla Regal Corte di Napoli in questo anno 1766 si è veduto un esempio nella Città del Vasto, col di cui Territorio confina questa Diocesi.

Dalli Mercatanti Napoletani si era data somma molta di danaro per comprare grano. Si erano comprati più di tomoli venti mila, ed erano pronte le navi, nelle quali si dovevano imbarcare. Ma con popolare tumulto fu impedito il caricamento per la ragione, ch’estraghendosi tale quantità di grano, niente sarebbe rimasto per l’annona della Città frequente di Anime sei mila in circa. E siccome nel popolare tumulto si dimostrò, che si aveva in non cale la suprema autorità del Principe; così fu colà spedita nel mese di Ottobre molta Truppa di Cavalleria e Fanteria colla facoltà di procedere anche al sacco del Luogo.

Alla vista della Soldatesca pronta all’esecuzione militare, e disposta in ordine di battaglia cessò l’orgoglio, e divennero tutti umili e mansueti, nè segui altro danno, se non se di qualche interesse nella dimora de Soldati, che non vissero a discrezione, ben vero osservarono la militare disciplina. L’umile ravvedimento de Vastesi gli giovò a conseguire il perdono, ed ottennero ancora, che rimanesse il grano per l’Annona, di cui con moderato lucro gli fu accordata la compra.

Potrebbe la Mensa Vescovile evitare la pretensione, che, siccome a lei spetta la metà della decima prediale sagramentale sopra il grano, che si raccoglie nel Territorio di Montelateglia, come Parrocchia distrutta e luogo disabitato (il che si porrà in chiaro nel descrivere li Luoghi disabitati della Diocesi); così potrebbe esercitare il diritto medesimo sopra il Territorio del Pedicone, che rimane deciso formare un solo corpo con Montelateglia, nè essere dal medesimo separato.

Non conviene però, che tale controversia si deduca in giudizio, tra perché si potrebbe allegare in contrario la prescrizione, che si dee attendere intorno il modo di dividere le decime sagramentali, come parimenti perché, se la Mensa volesse applicare a se la metà della decima sopra il Pedicone, assai scarsa rimarrebbe la Mensa Arcipretale, e la dote per la fabbrica della Chiesa.

Sopra gli utili Padroni della Palata, a cui è stato sempre unito, quale Casale della medesima, questo Luogo, mi sono state comunicate le seguenti notizie. Nell’anno 1316 la teneva in feudo colli Casali detti S. Clemente, S. Giusta, Tavenna, Gradina e Palatella la Famiglia della Posta di Frosolone, e di cui fu Simone familiare di Re Roberto, e di Carlo di lui figlio Duca di Calabria.

Durò il possesso nella Familgia suddetta sino all’anno 1367. Ne fu poi investita la Famiglia lannotta d’Isernia, da cui procederono valorosi Capitani, fra li quali fu Ottaviano.

Di costui si racconta dal Ciarlante (lib. 5 cap. 24 f. 513), a cui si può prestare fede sopra fatto seguito nella persona di un suo Concittadino. Si racconta, dice, che, quale Colonnello di Fanteria, militando sotto il Capitano generale il Duca d’Alva Viceré di Napoli, nel 1556 si ritrovò nell’ingresso vittorioso, che fè l’esercito imperiale di Carlo V in Anagni Città dello Stato Pontificio. Vide Egli, che alcuni Soldati Tedeschi protestanti oltraggiavano all’immagine di un Crocefisso; onde penetrato da cristiano zelo, colla spada alla mano, proccurò avere la sagra Immagine, che fral grave pericolo de Soldati, li quali contra lui si erano avventati, gli riuscì portare nel padiglione del Vicerè, dal quale fu lodato Egli, e furono puniti li Soldati sagrilegi. Quale trofeo della sua vittoria portò il Crocefisso nella Patria, il fè collocare nella Cappella della sua Famiglia dentro la Chiesa de Minori Conventuali, dove oggi ancora si venera.

In tale tempo non era più nel possesso della Palata la Famiglia Iannotta, che nell’anno 1548 per mezzo di Caterina Scimega si rinviene passata nel Capitano Clemente Iscari. E la medesima Caterina, per essersi ammogliata nelle secinde nozze con Alvaro Bragamonte, trasferì il possesso in tale Famiglia, forse per la metà, rinvenendosi in appresso esser stato l’utile dominio del Feudo e nella Famiglia Bragamonte, e nella Famiglia Toraldo, che durò sino al fine del passato Secolo, nel quale passò alla Famiglia Navarra, ed ora si gode dall’Eccellentissima Signora D. Maria Agostina Zapatta Marchesana della Sminas, la quale non avendo prole, dovrà nella di lei morte passare in altra Famiglia, che mi è stato supposto essere la Pallavicini.

Dal tempo, che fu stabilita la colonia degli Schiavoni l’utile dominio di questi Luoghi essendo stato presso Famiglia di Nazione spagnuola, non v’è stata mai la dimora dell’utile Padrone, come manca adesso. La giurisdizione è stata esercitata e si esercita dal Governatore, che risiede nella Palata. E per lo governo politico ed economico v’è stato, e v’è un Agente in Napoli, ch’è adesso il Signor D. Andrea Masseranti Giudice della Gran Corte della Vicaria Civile.

Talora sono state date in fitto le rendite, e talora dall’Agente per l’esazione si è deputato un Erario, come ora si osserva. Quanto comodo e vantaggio sia da ciò risultato, ciascheduno, che ha cognizione dell’osservanza (per non dire altro) che pretendono li Baroni dimoranti nelli Feudi, ben l’intende.

Non si vede nel luogo edificio alcuno o antico o moderno, di cui sia uopo fare particolare memoria. V’è solo un molino ad acqua, la quale si prende dal Torrente, che divide questo Territorio dalla Terra di Acquaviva, che spetta alla Commenda di S. Giovanni Gerosolimitano sotto il titolo di S. Primiano in Larino, e di S. Felice, ambedue abitate dagli Schiavoni: quale Torrente stimo, che sia quello, il quale da Leone Ostiense si dice Rivo piano come si esporrà nel descrivere li Luoghi diruti e disabitati della Diocesi.

Il Torrente scorre sempre, ma nell’està l’acqua non è sufficiente a muovere la rota, e manca il comodo del molino suddetto. Se però si unisse l’acqua, che scorre dalle fontane e sorgenti, le quali sono verso mezzo giorno, e si fabbricasse con altra semmitria il molino, potrebbe macinare in ogni tempo dell’anno.

L’assenza del Barone, a cui spetta, opera, che non si pensi a stabilire tale rendita di gran utile per la Camera baronale, e di molto comodo per gli Cittadini.


Dello Stato Ecclesiastico

Nel descrivere questo picciolo Casale si divide lo stato ecclesiastico dal civile per esservi molte cose, delle quali occorre fare particolare memoria. Subito che vennero gli Schiavoni a stabilire in questo sito la loro dimora, per essere cristiani cattolici, proccurarono fondare la Chiesa sotto il titolo di Santa Maria Costantinopolitana, nella quale si esercitasse la cura delle Anime, e si amministrassero li Sagramenti.

Si fabbricò in luogo elevato da Oriente verso l’Occidente estivo, a cui si ascende per molti gradi. La fabbrica fu formata con pessima semmitria, e cosi è rimasta: nè si può rendere migliore, senza demolirla. Oltre l’Altare Maggiore contra la porta, vi sono eretti quattro altri Altari: cioè di S. Maria del Rosario e del Corpo di Cristo dal corno del Vangelo, e di S. Giovanni l’Evangelista, e di S. Antonio di Padova dal corno dell’Epistola.

Al lato sinistro dell’Altare maggiore contra l’ingresso v’è picciola Sagrestia. ed al lato destro è la porta, per cui si sale al Campanile, ch’è l’opera migliore del Paese.

Nella Chiesa fu subbito deputato il Parroco con titolo perpetuo, che si è chiamato e si chiama Arciprete, a cui per lo congruo mantenimento non fu assegnato altro fondo, che due parti della decima sopra ogni specie di vittovaglie. lino, canapa e mosto da corrispondersi alla ragione di quattro tornoli per ogni centinaio, o sia di ogni venticinque uno, spettando l’altre due parti una per la fabbrica della Chiesa, e l’altra alla Mensa Vescovile. Se gli assegnarono parimenti gli emolumenti, che si dicono della stola bianca e nera, che si ricevono nell’amministrazione de Sagramenti, nelli funerali e negli altri uffizi parrocchiali, il di cui possesso si è mantenuto e si mantiene.

E perchè in quel primo tempo non vi potè essere il Parroco cittadino, vicino la Chiesa, si fabbricò picciola casa di due stanze superiori e due inferiori, che oggi ancora dall’Arciprete si possiede.

Essendosi stabilita per fondo della Chiesa la decima sopra ogni specie di vittovaglie, si dovrebbe dare ancora del frumentone, o sia grano dindia, la di cui semina fu successivamente introdotta. Si è però ripugnato e si ripugna darla. S’introdusse giudizio nella Corte locale, e si ottenne decreto favorevole per la manutenzione nel possesso, che fu confermato dal Giudice dell’appellazione detto della seconda causa spettanti alla giurisdizione de Baroni in questo Regno. Si appellò dall’Università al Tribunale dell’Udienza provinciale, dove ancor pende indecisa.

Nella fondazione della Chiesa Arcipretale niente fu contribuito dall’utile Padrone. Imperciocchè la fabbrica si elevò a spese delli Cittadini, li quali sopra le loro fatiche stabilirono il descritto fondo delle decime.

Non ebbe dunque Egli ragione veruna, per cui si avesse potuto riserbare il Padronato: nè v’è memoria, che Arciprete alcuno colla nomina dell’utile Padrone abbia conseguita dal Vescovo l’istituzione. Ma perché l’accennato Taulario del S.R.C. Natale Longo riferì, come ho letto in una copia informe, che l’Arciprete si doveva nominare dall’utile Padrone, si è parlato talora di tale aereo padronato.

Nella congiuntura, che nell’anno 1762 vacò l’Arcipretato, si pretese far uso di tale padronato, e si presentò la nomina: da me però, come contraria all’ultimo Stato non si ammise, e si procedè al concorso riservata la formula prescritta nel Tridentino, in cui fu predetto il Sacerdote Ferdinando Zaccardi originario di Castiglione, ma oriundo del Luogo.

In virtù di tale preelezione ebbe la provvista dalla Santa Sede. Ed affinché non fosse impedita la spedizione del regio Placito, scrissi al Signor Agente D. Andrea Masseranti, e gli rappresentai le ragioni, per cui l’Arcipretato si doveva avere per libero ed immune dalla servitù del padronato. Si uniformò costui al mio sentimento, nè si oppose alla spedizione dell’exequatur regio, giusta la memoria registrata nel processo del concorso.

Nel tempo, che amministrava l’Arcipretato Nicola Lena della Palata si contentò cedere alli Sacerdoti del Luogo la metà delle decime e di certi designati emolumenti per essere coadiuvato nella cura delle Anime. In virtù di tale cessione, per economico espediente approvato dal Vescovo, pretendevono li Preti garantiti dall’Università, che la Chiesa si dovesse avere per ricettizia; e perciò fosse tenuto l’Arciprete dargli la metà delle decime e degli altri emolumenti, con servire poi a piacer loro la Chiesa.

Prima, che prendesse maggior piede, si diede compenso alla vana pretensione. Si dichiarò niuno diritto competere alli Preti cittadini sopra le rendite parrocchiali, e che poteva l’Arciprete assumere, secondo il suo arbitrio quei Sacerdoti, che giudicasse necessari per essere coadiuvato nella cura delle Anime, e concordare colli medesimi per lo stipendio.

Secondo questa determinazione è egli l’Arciprete coadiuvato dalli Preti cittadini, alli quali giusta il servizio ha assegnata certa quantità di vittovaglie.

La dote per la fabbrica della Chiesa, che consiste nella sola quarta parte delle decime, si amministra da un Secolare eletto dalli Cittadini nel pubblico parlamento. Dalla dote suddetta dovendosi dedurre tomoli dodici di grano per lo stipendio del Sagrestano, ch’è pure un secolare, tal quale si possa rinvenire, poco vi rimane per le altre cose necessarie.

Questo poco però, quando è stato ben amministrato, non è stato solo sufficiente per tutte le spese ordinarie, ben vero si è riserbata parte per l’estraordinarie: come per la diligenza ed attenzione del presente Arciprete Don Ferdinando Zaccardi adesso si sperimenta.

Fu uopo, che s’ingerisca Egli con prudenza, mentre, giusta il concordato, li Laici sono gelosi, che gli Ecclesiastici abbiano minima parte nell’amministrazione de Luoghi pii laicali.

Gli Altari di S. Maria del Rosario e del Santissimo Corpo di Cristo hanno le loro doti consistenti in pochi annui censi, in picciole case, dalle quali quasi niente si ha, per non essere facile appigionarsi, e nelli monti di grano. Ma perché sono amministrate dalli Proccuratori secolari, che si eleggono dalle Università, sono ridotti a stato tanto miserabile, che non si può supplire alle spese ordinarie.

L’Altare di S. Antonio di Padova fu fondato dalla Famiglia Marino, che fra li primi Schiavoni era de più facoltosi, e si obbligò mantenerlo. Essendosi estinta la linea maschile della famiglia suddetta, li beni col padronato si sono divisi nelle linee delle femine ammogliate in diverse Famiglie; talchè occorrendo adesso qualche ornamento all’Altare, riesce difficile unire li Padroni all’adempimento. Sarebbe opportuno, che ciascheduno per la sua rata contribuisse a stabilire un fondo, che in questa maniera l’Altare sarebbe sempre con decenza mantenuto, e le Famiglie sarebbero sgravate da ogni peso.

All’Altare di S. Giovanni Vangelista vi è eretto beneficio semplice (ch’è l’unico della Diocesi) soggetto al padronato della famiglia Drusso, la quale nel passato Secolo da San Felice si trasferì in Tavenna, ed acquistò beni molti, per cui si è resa distinta. Nell’anno 1696 da Francesco Drusso, ch’era allora Arciprete, fu fondato e dotato, e proccurò conseguire per se stesso l’istituzione, a cui rinunciò, per far istituire il Sacerdote Francesco Mastrangioli, che vi si era trasferito da Castiglione per coadiuvarlo nell’esercizio della cura delle Anime.

Si possiede adesso dal Soddiacono Francesco Drusso figlio di Nicola e Pronipote del Fondatore. Nella prima dotazione la rendita era tenue; ma per le successive donazioni, e per lo stabilimento di un monte frumentario di tomoli dugento di grano, si è accresciuta in modo che oltrepassa gli annui docati cinquanta.

Oltre la Chiesa Arcipretale, poco dopo lo stabilimento della Colonia, fabbricarono li Cittadini la Chiesa sotto il titolo di San Giorgio, ch’elessero per Protettore. La Chiesa è picciola lontana verso greco passi venti dal sito abitato, e vi è eretto un solo Altare, in cui è la statua di legno, che rappresenta San Giorgio, assai bene scolpita.

Nella medesima si è cavata larga e profonda sepoltura, che dee servire per Cemiterio, mentre nella sepoltura dell’Arcipretale non vi capivano altri cadaveri. Era molto ricca per lo monte frumentario di grano, che oltrepassava li tomoli tremila, per un numeroso prestio di vacche, e per molti bovi aratori, da quali, secondo l’uso del Paese, si esigeva l’istaglio di tomoli dodici di grano per ciascheduna coppia.

Essendo Cappella laicale amministrata da un Proccuratore, che si elegge nel pubblico parlamento de Cittadini, al pari degli altri Luoghi pii simili, è all’intutto rovinata. È ricca soltanto adesso di crediti, li quali non si esigeranno mai, per essere radissimi li Cittadini, che non siano debitori.

La rovina della Cappella ha seco tratta la rovina de Cittadini. lmperciocchè gli è mancato il soccorso, che prima avevano per aiuto della coltura de campi li Massari, li quali sono adesso nella necessità di girare nelli Luoghi vicini, per rinvenire chi gli soccorra, con grave loro danno. Perdono tempo per raccomandarsi a quei, da cui pretendono avere o grano o danaro in presto, e ricevendo o l’uno o l’altro, sono tenuti soddisfare con doversi privare di quanto raccogliono colla spesa di trasportarlo nelli Luoghi, dove avevano contratti li debiti. Vi erano prima comodi Massari, e per l’accennata ragione sono adesso diventati poveri e miserabili.

Era nel Casale medesimo la terza Chiesa sita nel luogo detto Piano degli Olmi alla regione australe dedicata a Maria Santissima coronata dagli Angioli. Il Sacerdote Giorgio Drusso, per eseguire quanto aveva nel suo testamento disposto Ottavio di lui Padre, nello stesso sito fabbricò Chiesa più grande, e per la riedificazione e dotazione acquistò il padronato alla Famiglia, il di cui colonnello o ramo, ch’è adesso nella persona di Ottavio Drusso Nipote dell’altro suddetto Ottavio, è obbligato al mantenimento, ed al pagamento di proccurazione e cattedratico.

Nel dì 1 del mese di Maggio dell’anno 1707 il Vescovo Domenico Catalani benedisse solennemente la nuova Chiesa, e vi celebrò Messa col rito pontificale. Nella visita però dell’anno seguente a dì 30 Ottobre avendola rinvenuta chiusa, fè aprire con forza la porta picciola laterale. E perché osservò non essere mantenuta con decenza, e non essere stata costituita la dote, com’era stato promesso nell’atto della benedizione, la dichiarò interdetta.

Per memoria si trascrive il decreto dal medesimo zelantissimo Vescovo promulgato:
"Addì 30 Ottobre 1708. Al mattino……
Completata la successiva visita degli Altari della sacra Chiesa Parrocchiale, ancora in processione, come sopra, si recò, insieme con tutti i già citati, con me ed altri popolani, alla Chiesa consacrata a S. Maria Vergine Incoronata, situata fuori la porta di detto Casale, e che nell’anno precedente 1707 era stata benedetta dal suo Illustrissimo Signore nella Domenica in Albis; e giunto davanti alla facciata, nella cui cuspide, e precisamente su una delle tre finestre, su quella che occupa il centro, e guarda direttamente sul portale maggiore, è dipinto lo stemma di Carlo III Re di Spagna, trovò chiusi i battenti dello stesso, per cui fatto subito un tentativo su incarico del suddetto Illustrissimo e Reverendissimo Signore, non riuscirono ad aprire: e avendo chiesto l’illustrissimo Signore al suddetto Arciprete Drusco dove fossero le chiavi che solitamente teneva, egli rispose di averle consegnate a suo fratello don Giorgio Drusco, e che quello se le era tenute e che ora stava a Palata della Diocesi di Guardialfiera, e avendo l’Illustrissimo Signore chiesto spiegazioni su quella incresciosa situazione, il solito Arciprete rispose che non sapeva darne e che lui aveva provveduto di persona a far affiggere al solito posto, l’editto che comunicava la Santa visita. Pertanto l’illustrissimo e Reverendissimo Signor Vescovo, lasciata la porta maggiore di cui sopra, si diresse verso la porta laterale della Chiesa, e avendola trovata ugualmente sprangata con una sbarra di ferro all’esterno, diede ordine che fosse aperta nel migliore dei modi; immediatamente alcuni domestici presero una trave, ed inferti alcuni colpi, la sbarra uscì dal suo posto e la porta si aprì. Immediatamente entrò il detto Illustrissimo Signore con i suddetti Arciprete e Clero, con la Croce davanti a tutti, e i santi visitatori; e poi venivamo io, Domenico di Lena uomo di governo del suddetto Casale, Adamo Jacovino, Donato di Lucito, Domenico Maroscia, Felice Prioli, Luca Basciano, Pietro Matteacci, Antonio Roscio di San Felice, ed altre persone di ambedue i sessi.

E aspersa l’acqua benedetta che l’Arciprete gli porgeva, dopo una breve preghiera sul gradino del Presbiterio, si accostò all’Altare maggiore e lo trovò adorno di una elegante struttura lignea dorata, e dipinta in mezzo con una bella vernice verde, ed in mezzo c’era l’immagine, senza statua, della B.M. Vergine Incoronata seduta su un ramo d’albero: e tolti i drappi, trovò la pietra sacra ben salda e la Mensa tutta rovinata da ogni lato, e sbrecciata qua e là in misura diversa, e sul gradino dei candelabri e due orciuoli di terracotta usati per l’acqua e il vino durante la celebrazione della Messa e il drappo tanto corto che da tutti e due i lati restava scoperto il muro dell’Altare per circa un palmo; e pertanto dichiarò inagibile l’Altare, finché non fosse restaurato e spianato e la pietra sacra fosse coperta di tela cerata, e la mensa fosse coperta di un drappo di tela di color viola, e si rivestisse l’Altare di un nuovo manto, e fosse fornito di nuove ampolle di vetro dopo aver eliminato quelle di terracotta, e di altre cose necessarie.

Ed essendo stato chiesto all’Arciprete da quanto tempo all’incirca non si celebrasse su quell’Altare, la risposta fu che l’ultima Messa risaliva al mese di Settembre scorso nel giorno della natività della Beata Maria Vergine.

Visitò quindi l’altro Altare consacrato anch’esso alla B. Maria Vergine Incoronata, con un’antica immagine situata tra fregi di legno; ed anche questo Altare trovò completamente spoglio e disadorno, e spostato rispetto alla base. E non essendo stato eretto su licenza di Sua Signoria lllustrissima e mancando della dote, fu anch’esso interdetto.

Ispezionò altresì, dirimpetto a questo, un altro Altare spoglio e privo di icona, di pietra sacra e supporto, e lo interdisse anche.

lspezionò un pulpito di legno sito sul confessionale, ed ordinò che si costruisse una scala che portasse a quel pulpito. Visitò lo stesso confessionale, e ordinò di apporre alle finestrelle lamine di stagno con minuscoli forellini.

Visitò l’organo e il suo epistilio o coretto di legno mirabilmente scolpito ed ebbe parole di lode.

Visitò il coro, e lo trovò rovinato dappertutto con alcune travi fatte con listelli di cassa, e l’Altare maggiore con due travi di sostegno nella parte posteriore, non ancora messe completamente a posto. Ispezionò tutta la Chiesa, e trovò in un angolo una campana appesa a due travi, in un altro angolo un mucchio di mattoni, in un altro delle scale e scheggie varie di assi di legno, di travi, e le pareti della Chiesa tutte coperte di ragnatele, e il pavimento pieno di polvere e di sporcizia.

L’Illustrissimo e Reverendissimo Signor Vescovo, visto tutto quanto descritto, e considerato che il suddetto Signor Giorgio non ancora si era preoccupato di esibire il testamento di suo padre Ottavio, nè di costituire la dote, così come aveva promesso di fare durante la suddetta solenne benedizione; pertanto finché non fosse sgombrata e ripulita la Chiesa dei suddetti materiali, e ultimati, i lavori; e finché non fosse esibito negli atti della Curia Vescovile il suddetto testamento di Ottavio, e fosse costituita la congrua, da approvarsi da Sua Signoria Illustrissima, interdisse tutta la Chiesa, e curò che dell’interdizione fosse data pubblicità.

Infine su richiesta dell’lllustrissimo e Reverendissimo Signore, essendo stato tolto il chiavistello dalla porta maggiore, e avendola aperta, dopo aver raccomandato all’Arciprete che si preoccupasse di farla richiudere in ogni punto (e l’Arciprete assicurò che ci avrebbe pensato lui), uscì proprio dalla porta maggiore, e si diresse alla suddetta Chiesa madre per ascoltare la funzione sacra: ciò fatto, accompagnato da me e da tutti i sopra citati, ritornò alla sua dimora."

Si pretendeva allora, che per essere stata dipinta sopra la porta maggiore l’arma di Carlo III poi VI Imperatore, che possedeva allora questo Regno, si dovesse avere per Chiesa regale, ed immune dalla giurisdizione dell’Ordinario.

Nella successiva lite sostenuta in Napoli si ebbe per vana tale pretensione, talchè la Chiesa è stata sempre considerata per soggetta all’Ordinario, che l’ha visitata, e la visita senz’esservi occorsa altra controversia.

Nello stato presente la Chiesa alla prima vista sembra ornata con decenza. Nell’Altare maggiore si vede la statua di Maria Santissima coronata dagli Angioli collocata sopra un albero, e la nicchia ha all’intorno ben inteso intaglio di legno colorito e dorato. Dietro il Coro, le di cui sedie sono dipinte e dorate. Il pulpito è pure dipinto e dorato: e così il palco dell’organo.

Vi sono due Altari minori, uno dedicato a San Luca e l’altro a San Vito, che hanno li loro ornamenti di stucco e di legno intagliato, colorito e dorato. Così è nell’apparenza. Ma perché tutto il legno è in parte marcito, ed in parte roso da vermi, il tonico, e stucco offesi dall’umido, e li muri lesionati per difetto nelli fondamenti; se non sarà presto provveduto nella maniera, ch’è stato più volte ordinato, di finirsi il muro esteriore di rinforso, tutto andrà presto in rovina. Dietro la Chiesa la torre per le campane è tutta fabbricata di pietra spianata collo scarpello, ma vi manca la scala.

Per lo servizio della Chiesa v’è un Prete eletto dalla Famiglia Drusso nella linea di Ottavio, il quale non ha particolare stipendio, ma è contento delle limosine per le Messe parte fisse e parte avventizie, e delle obblazioni per le litanie lauretane, che sono frequenti.

Nell’ultimo Sabato del mese di Aprile si celebra la Festa, alla quale suole concorrere molto Popolo delli Luoghi vicini: e per tale concorso vi sogliono essere Mercatanti a vendere merci e commestibili di modo, che si raguna come una Fiera. Dal giorno della Festa per tutta l’està ed autunno in ogni Domenica non mancano Divoti de Luoghi vicini, che vengono a venerare Maria Santissima. E così si ricevono limosine per le Messe e per le litanie lauretane.

Fra l’Arciprete e il Rettore di questa Chiesa non sono sinora occorse controversie, per le quali fosse stato uopo fissare e stabilire: quali uffizi possa da sè, senza la presenza o licenza dell’Arciprete adempire il Cappellano o Rettore. Imperciocchè v’è stata corrispondenza tale, che ha impedito le questioni. Per adesso si può sperare la stessa concordia, che, se sarà offesa, penseranno li miei Successori prescrivere li limiti della reciproca cura spirituale per la celebrazione delli divini uffizi.

Nel mese di Ottobre dell’anno 1730 morì Giuseppe Drusso, il quale delli suoi beni istituì erede la Chiesa suddetta, e lasciò per Governatore ed Amministratore Nicola Drusso, successivamente il di Lui Primogenito, e così da Primogenito in Primogenito, coll’obbligo di mantenere un Cappellano, che dovesse celebrare una Messa cotidiana colla limosina di grani quindici per ciascheduna Messa, e di spendere il resto de frutti in ornamento della Chiesa. Gli ordinò dover rendere conto da anno in anno, e farlo vedere al Vescovo nella visita, a cui doveva pagare il dovuto stipendio.

Questo ed altro si rileva dal testamento e codicillo, di cui si rogò il Notaro Crescenzo Ricciuti della Palata.

Delli beni ereditati si formò l’inventano, dal quale si può dedurre, che oltrepassavano il valore di docati sette mila. Gli amministrò Nicola Drusso, il quale mai rese conto. Implorai l’autorità del Monarca per obbligarlo al rendimento de conti. Ma perché sperimentai dover spendere molto danaro, per conseguire la giustizia, che niente conferiva alla Mensa, mi ritirai dall’impegno. Morì Egli Nicola Drusso nell’anno 1762, e quel conto, che non aveva reso in questo, dovette renderlo nell’altro Mondo avanti il Tribunale di Dominedio, da cui spero, che gli fu usata misericordia.

Dell’eredità vi sono rimasti pochi beni stabili, colli quali si è designata la dote per la Cappellania, e li frutti degli altri, che si dovrebbero applicare per ornamento della Chiesa, si possiedono e si usufruttuano come beni propri. La Cappellania è stata assegnata per patrimonio sagro al Cherico Pier Abbundio Drusso figlio del detto Nicola, e l’amministrazione dell’eredità è presso il Soddiacono Francesco primogenito di Nicola stesso. Costui però niente può fare da se, dovendo dipendere dalli cenni della Madre Elisabetta Musacchio, che, per essere di origine albanese, ha per ragione il proprio capriccio, nè mi è riuscito persuaderla del proprio dovere.

Oltre la Festa accennata di S. Maria coronata dagli Angioli, ed oltre l’altra del Santo Protettore nel dì 23 Aprile, nella prima Domenica di Settembre si onora con culto speciale S. Irene Vergine e Martire per conseguire che coll’intercessione della Santa sia preservato il Territorio da fulmini e tempeste.

Tra perché interessa tutti essere preservati da tali divini flagelli, come parimenti perché, per rendere allegro il giorno si suole esibire la veduta de cavalli, che corrono per guadagnare il palio, e di qualche altro simile divertimento, e dello sparo, di fuoco artificiale nella sera; è frequente il concorso delle persone, che vengono dalli Luoghi vicini.

Non si è ottenuta dalla Santa Sede la concessione dell’uffizio; onde per la sola divozione del Popolo è permessa celebrare la Messa votiva solenne, che in tale circostanza, giusta la spiega comune degli Autori liturgici, ha per lecito la Rubrica.

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