Lo shock culturale, in riferimento alla migrazione, è determinato dall’abbandono degli elementi culturali relativi alla cultura di appartenenza, per l’inserimento in un nuovo contesto fatto di elementi sconosciuti e, pertanto, psicologicamente problematici perchè difficili da accettare immediatamente. L’emigrazione comporta una fase traumatica acuta nella sua fase iniziale, ma col proseguire dell’esperienza migratoria il trauma è ascrivibile anche a situazioni che si prolungano nel tempo.
Lo shock culturale interessa tutte le migrazioni a qualsiasi livello ed è reso evidente da un sentimento di spaesamento, di incapacità di comprendere i meccanismi sociali nei quali ci si trova ad agire. L’individuo coinvolto è cosciente solo della sua alienazione forzata rispetto alla società che abbandona e parallelamente è chiuso in un sistema di norme e valori che non riesce ancora a decifrare. Si sviluppa una grande tensione emotiva dovuta allo sforzo di adattamento alla nuova realtà, un senso di privazione per ciò che si è lasciato e un senso di timore per ciò a cui si va incontro.
FASI TIPICHE
Le fasi relative allo shock culturale sono generalmente riconosciute come cinque stadi relazionali nei confronti della cultura di adozione. Si parla generalmente di fasi che si succedono in base alla distanza che intercorre tra le due culture. Nel caso di una cultura di adozione più simile a quella di origine, l’evoluzione dal primo all’ultimo stadio avrà una durata relativamente breve, mentre se la distanza è maggiore – come nel caso della cultura inglese – anche il percorso che porta all’ultima fase è più lungo.
Prima Fase: «Luna di miele». Tutto ciò che ci circonda è stimolante e gode del fascino del nuovo e dell’insolito.
Seconda Fase: Alienazione. Fase di durata indefinita. La mancanza di categorie atte a comprendere la nuova realtà porta ad un misconoscimento dei nuovi meccanismi culturali e, solitamente, vede il soggetto aggrapparsi strenuamente agli schemi culturali di cui è in possesso rifiutando altri input.
Terza Fase: Assimilazione. Lentamente l’emigrato subisce il contesto culturale, i cui valori si impongono a scapito di quelli propri. In questa fase è inevitabile un senso di disorientamento mentre si acquistano i nuovi caratteri perdendo quelli originali, tuttavia gradualmente si impara a comportarsi in modo appropriato alle varie situazioni comunicative e il senso di alienazione comincia a decrescere.
Quarta Fase: Inserimento. Il migrante accetta e comprende i nuovi schemi, norme, valori, forme e metodi propri della cultura ospite, li fa propri e li riconosce. In molti casi, soprattutto dove esistono comunità etniche molto forti, questa è il punto di arrivo per molti migranti: nella società di accoglienza si seguono le norme e le regole ad essa proprie, ma tornati alla micro-cultura del gruppo etnico di appartenenza si assumono nuovamente i caratteri culturali originari.
Quinta Fase: Integrazione. Integrarsi vuol dire acquisire il complesso di norme che regolano il funzionamento della società – si raggiunge la quasi totale padronanza dei codici linguistici ed extralinguistici del paese ospitante – mantenendo al contempo il sistema di valori appartenenti alla propria estrazione culturale. Si parla anche di integrazione attiva quando lo scambio culturale opera secondo relazioni biunivoche.
Come attenuare gli effetti dello shock culturale
Gli elementi culturali quali la lingua, i costumi, le tradizioni, la religione, le gerarchie sociali sono gli strumenti che permettono la creazione di spazi emici, funzionali nei confronti della propria cultura, oasi di tranquillità per cercare di non perdere la propria identità.
Un aiuto fondamentale è fornito anche dalle reti di relazione della comunità etnica già insediata nella nuova cultura, vero e proprio punto di riferimento per il nuovo arrivato, per il quale l’impatto dato dalla differenza è massimo. Si formano così reti etniche la cui solidarietà è volta a ricreare ambienti, tradizioni, aspetti della vita quotidiana familiari, in cui si parla la propria lingua, si vestono abiti della propria tradizione, si prega e si mangiano pietanze preparate secondo i gusti e le abitudini alimentari d’origine. Ed è proprio questo ultimo aspetto, il cibo, a costituire il rimedio più immediato e diretto nell’affrontare una situazione di misconoscimento culturale.
IL RUOLO DEL CIBO
Il cibo, considerato non solo come alimento ma come vero e proprio elemento culturale, è il ponte verso la propria terra, i propri affetti, i propri luoghi. Esso può essere esperito dall’individuo attraverso l’utilizzo di tutti e cinque i sensi: ha un odore, un colore, un gusto, un aspetto e un suono, e ciò gli permette di essere sperimentato direttamente. È proprio questa immediatezza che lo rende veicolo identitario ad accesso immediato. Queste sue caratteristice permettono anche di approcciarvisi senza tante mediazioni – addirittura inglobandola in senso fisico, facendola diventare parte di se per il tempo che dura l’esperienza del mangiare – alla cultura ospite. Mangiare il cibo di una cultura diversa significa appunto accettarne in qualche modo le norme culturali che hanno portato alla sua preparazione.
Attenzione però alle “trappole”. L’abitudine di un migrante al cunsumo frequente di pasti nei fast food lontano dall’essere un’esperienza di “acquisizione culturale”, nasconde un processo di annichilimento culturale. Questo avviene non tanto sotto l’aspetto nutrizionale ma proprio dal punto di vista delle relazioni tra Se, il cibo e la propria identità. Se il fast food è fruito anche nella propria realtà esso difficilmente diventerà una norma alimentare, soprattutto in un Paese come l’Italia la cui tradizione alimentare è eccezionalmente radicata. Se invece, come molto spesso accade, il fast food diventa allo stesso tempo attrazione e soluzione al problema relativo al “non saper cosa mangiare” ecco che allora il cibo non sarà più strumento per risolvere, seppur in modo parziale, lo shock culturale. È importante quindi considerare il cibo anche nel suo aspetto sociale. Consumare i pasti con persone che appartengono alla propria cultura, in un clima di convivialità quandunque ciò fosse possibile, moltiplica le connessioni con la propria cultura. Tra i rimedi pratici per superare situazioni difficili legate allo shock culturale vi è quello di “praticare” il cibo: recarsi in un mercatino di prodotti alimentari locali, selezionare gli ingredienti più simili a quelli della cucina italiana e poi prepararli e cucinarli per un gruppo di amici può essere un modo piacevole e conviviale per ritrovare sentimenti e sensazioni alle quali si è abituati e, in definitiva, sentirsi a casa.
Lo shock culturale interessa tutte le migrazioni a qualsiasi livello ed è reso evidente da un sentimento di spaesamento, di incapacità di comprendere i meccanismi sociali nei quali ci si trova ad agire. L’individuo coinvolto è cosciente solo della sua alienazione forzata rispetto alla società che abbandona e parallelamente è chiuso in un sistema di norme e valori che non riesce ancora a decifrare. Si sviluppa una grande tensione emotiva dovuta allo sforzo di adattamento alla nuova realtà, un senso di privazione per ciò che si è lasciato e un senso di timore per ciò a cui si va incontro.
FASI TIPICHE
Le fasi relative allo shock culturale sono generalmente riconosciute come cinque stadi relazionali nei confronti della cultura di adozione. Si parla generalmente di fasi che si succedono in base alla distanza che intercorre tra le due culture. Nel caso di una cultura di adozione più simile a quella di origine, l’evoluzione dal primo all’ultimo stadio avrà una durata relativamente breve, mentre se la distanza è maggiore – come nel caso della cultura inglese – anche il percorso che porta all’ultima fase è più lungo.
Prima Fase: «Luna di miele». Tutto ciò che ci circonda è stimolante e gode del fascino del nuovo e dell’insolito.
Seconda Fase: Alienazione. Fase di durata indefinita. La mancanza di categorie atte a comprendere la nuova realtà porta ad un misconoscimento dei nuovi meccanismi culturali e, solitamente, vede il soggetto aggrapparsi strenuamente agli schemi culturali di cui è in possesso rifiutando altri input.
Terza Fase: Assimilazione. Lentamente l’emigrato subisce il contesto culturale, i cui valori si impongono a scapito di quelli propri. In questa fase è inevitabile un senso di disorientamento mentre si acquistano i nuovi caratteri perdendo quelli originali, tuttavia gradualmente si impara a comportarsi in modo appropriato alle varie situazioni comunicative e il senso di alienazione comincia a decrescere.
Quarta Fase: Inserimento. Il migrante accetta e comprende i nuovi schemi, norme, valori, forme e metodi propri della cultura ospite, li fa propri e li riconosce. In molti casi, soprattutto dove esistono comunità etniche molto forti, questa è il punto di arrivo per molti migranti: nella società di accoglienza si seguono le norme e le regole ad essa proprie, ma tornati alla micro-cultura del gruppo etnico di appartenenza si assumono nuovamente i caratteri culturali originari.
Quinta Fase: Integrazione. Integrarsi vuol dire acquisire il complesso di norme che regolano il funzionamento della società – si raggiunge la quasi totale padronanza dei codici linguistici ed extralinguistici del paese ospitante – mantenendo al contempo il sistema di valori appartenenti alla propria estrazione culturale. Si parla anche di integrazione attiva quando lo scambio culturale opera secondo relazioni biunivoche.
Come attenuare gli effetti dello shock culturale
Gli elementi culturali quali la lingua, i costumi, le tradizioni, la religione, le gerarchie sociali sono gli strumenti che permettono la creazione di spazi emici, funzionali nei confronti della propria cultura, oasi di tranquillità per cercare di non perdere la propria identità.
Un aiuto fondamentale è fornito anche dalle reti di relazione della comunità etnica già insediata nella nuova cultura, vero e proprio punto di riferimento per il nuovo arrivato, per il quale l’impatto dato dalla differenza è massimo. Si formano così reti etniche la cui solidarietà è volta a ricreare ambienti, tradizioni, aspetti della vita quotidiana familiari, in cui si parla la propria lingua, si vestono abiti della propria tradizione, si prega e si mangiano pietanze preparate secondo i gusti e le abitudini alimentari d’origine. Ed è proprio questo ultimo aspetto, il cibo, a costituire il rimedio più immediato e diretto nell’affrontare una situazione di misconoscimento culturale.
IL RUOLO DEL CIBO
Il cibo, considerato non solo come alimento ma come vero e proprio elemento culturale, è il ponte verso la propria terra, i propri affetti, i propri luoghi. Esso può essere esperito dall’individuo attraverso l’utilizzo di tutti e cinque i sensi: ha un odore, un colore, un gusto, un aspetto e un suono, e ciò gli permette di essere sperimentato direttamente. È proprio questa immediatezza che lo rende veicolo identitario ad accesso immediato. Queste sue caratteristice permettono anche di approcciarvisi senza tante mediazioni – addirittura inglobandola in senso fisico, facendola diventare parte di se per il tempo che dura l’esperienza del mangiare – alla cultura ospite. Mangiare il cibo di una cultura diversa significa appunto accettarne in qualche modo le norme culturali che hanno portato alla sua preparazione.
Attenzione però alle “trappole”. L’abitudine di un migrante al cunsumo frequente di pasti nei fast food lontano dall’essere un’esperienza di “acquisizione culturale”, nasconde un processo di annichilimento culturale. Questo avviene non tanto sotto l’aspetto nutrizionale ma proprio dal punto di vista delle relazioni tra Se, il cibo e la propria identità. Se il fast food è fruito anche nella propria realtà esso difficilmente diventerà una norma alimentare, soprattutto in un Paese come l’Italia la cui tradizione alimentare è eccezionalmente radicata. Se invece, come molto spesso accade, il fast food diventa allo stesso tempo attrazione e soluzione al problema relativo al “non saper cosa mangiare” ecco che allora il cibo non sarà più strumento per risolvere, seppur in modo parziale, lo shock culturale. È importante quindi considerare il cibo anche nel suo aspetto sociale. Consumare i pasti con persone che appartengono alla propria cultura, in un clima di convivialità quandunque ciò fosse possibile, moltiplica le connessioni con la propria cultura. Tra i rimedi pratici per superare situazioni difficili legate allo shock culturale vi è quello di “praticare” il cibo: recarsi in un mercatino di prodotti alimentari locali, selezionare gli ingredienti più simili a quelli della cucina italiana e poi prepararli e cucinarli per un gruppo di amici può essere un modo piacevole e conviviale per ritrovare sentimenti e sensazioni alle quali si è abituati e, in definitiva, sentirsi a casa.
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